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Emigrazione italiana: immaginario e realtà

Trascrizione

Tutto parte da un immaginario, cioè dalla costruzione di una narrazione: l’immaginario è lo strumento più trasformativo e distruttivo nelle mani degli esseri umani. La storia ci insegna che la costruzione di grandi immaginari, come quelli delle religioni, ha unito gli esseri umani e li ha portati a distruggersi l’un l’altro.

Capire cosa sia un immaginario è semplice, basta osservare quali immagini appaiono nella tua mente appena dico “dolce vita”: vedi città italiane soleggiate, bei vestiti, un caffè al bar, magari Roma, la Fontana di Trevi, un bel cappello in testa, il dolce far niente, la bella vita italiana, il desiderio di essere felici, di cambiare vita, di avere una vita più piena, buon cibo, buon vino eccetera eccetera…

Tutte queste immagini che ho appena elencato hanno contribuito, negli anni, a costruire l’immaginario della “dolce vita”, immaginario così potente che da un lato ha spinto molti a cambiar vita alla ricerca di una felicità maggiore, dall’altro ha arricchito sia le agenzie di marketing sia chi vende servizi che realizzano il sogno della “dolce vita”, immaginario che da un lato ha portato ricchezza economica in Italia, dall’altro ha contribuito a trasformarla in un museo a cielo aperto, in un parco giochi per turisti.

L’immaginario, dunque, come vedi, è un’arma a doppio taglio.

Anche i nostri emigranti italiani avevano nella mente un immaginario dell’emigrazione ben preciso, immaginario così potente da spingerli ad intraprendere viaggi lunghissimi, in condizioni precarie, con il solo obiettivo di ottenere tutto ciò che questo immaginario prometteva loro.

Ma cosa nutre l’immaginario, cosa lo crea? Semplice: la pubblicità, i film, le canzoni, la letteratura e i miti con le loro immagini, e le sensazioni associate a queste immagini, costruiscono l’immaginario.

Quale immagine dell’emigrazione aveva il migrante prima di mettersi in viaggio? Quale era la sua aspettativa?

La terra d’arrivo, l’America, era vista come la terra promessa, in cui si sarebbero fatti tanti sacrifici all’inizio, ma in cui poi, alla fine, si sarebbe stati ricompensati con una vita agiata, un lavoro, una casa, cibo in abbondanza, soldi per le proprie famiglie.

Emigrare verso l’America non era però solamente una risposta alla fame e alla miseria, ma anche una manifestazione di spirito d’iniziativa, coraggio e forza interiore. L’America era un paese di abbondanza e speranza. Nell’immaginario di cui i migranti si nutrivano e con cui alimentavano il loro sogno, loro non erano solo individui impoveriti in cerca di una nuova vita, ma erano veri e propri eroi che sfidavano il destino con il loro coraggio.

Ancora oggi, nella lingua parlata, utilizziamo l’espressione “l’America” per riferirci a qualcosa di ricco, opulento e abbondante. Se vedo una tavola imbandita con molto cibo posso esclamare “oh oh, e che cos’è, l’America!”; se vedo qualcuno con tante buste, di ritorno da uno shopping sfrenato, posso esclamare “wao, e cos’è, l’America!”.

Abbondanza, dunque, e coraggio: l’attraversamento dell’oceano rappresentava un passaggio a una nuova vita, e veniva spesso vissuto come un’esperienza iniziatica.

La creazione del mito dell’America è stata influenzata da racconti di emigrati, lettere che descrivevano le meraviglie americane, film, cinema, letteratura.

In sintesi, per gli immigrati italiani, l’America era più di una destinazione geografica, infatti era una metafora della speranza e del sogno di una vita migliore, ed era questo sogno (questo immaginario) a spingerli ad andare avanti, a non fermarsi, anche quando le cose diventavano materialmente insostenibili.

Già però al porto di partenza, l’immaginario iniziava a scontrarsi con la realtà dal momento che gli emigranti si trovavano davanti gente povera, misera, ammucchiata in spazi piccoli, con scarse condizioni igieniche.

Il viaggio in nave verso le Americhe poteva durare più di un mese ed era spesso caratterizzato da condizioni molto precarie. Non è esistita una regolamentazione sanitaria per l’emigrazione fino a che non si è approvata la legge del 31 gennaio 1901.

Le condizioni a bordo delle navi erano disumane, con spazi stretti e mancanza di aria fresca. Le cuccette degli emigranti erano collocate in corridoi angusti e ricevevano poco afflusso d’aria. Questo ambiente promuoveva la diffusione di malattie, in particolare bronchiali e dell’apparato respiratorio.

L’acqua a bordo della nave veniva spesso contaminata a causa del cemento delle casse in cui veniva conservata che si sgretolava durante il viaggio rendendola non potabile.

Il cibo sulle navi scarseggiava, tuttavia la razione giornaliera era solitamente migliore in termini di quantità e qualità rispetto all’alimentazione abituale in Italia.

Un sacco di paglia e un orinatoio ogni cento persone era tutto ciò che veniva concesso loro. Molti morivano prima di arrivare a destinazione. Se si arrivava a destinazione si doveva subire l’umiliante fase di controlli all’ufficio emigrazione, brutale, soprattutto a New York, a Ellis Island: prima veniva fatto un controllo delle condizioni di salute, poi un test psicoattitudinale. Se si passavano i controlli si riceveva un documento d’identità, altrimenti si veniva marcati con una X sui vestiti e si veniva rimandati indietro.

Dopo che si era ricevuto il documento d’identità iniziava la vera sfida: la sfida dell’integrazione.

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