L’italiano del cibo, la lingua italiana della cucina: hai mai fatto caso a come un italiano parla del cibo? Hai mai notato le parole che usa, il tono che gli da, le descrizioni che ne fa?
Pensaci un attimo e dimmi se anche tu pensi che gli italiani diventino…romantici, sentimentali e sdolcinati quando parlano di cibo.
In quanto mio studiante precisino e mia studiante precisina, ormai sai che esistono varietà diverse di italiano (nei podcast del prossimo modulo del corso di grammatica avanzata approfondirai questo concetto ancora meglio).
In base all’argomento, al contesto, la lingua cambia: se tengo una lezione all’università userò una certa lingua, un certo tono, certe parole, quando invece scrivo una lettera d’amore userò una lingua diversa, un tono diverso, parole diverse.
Dunque, come appare la lingua degli italiani quando parlano di cucina? Che tono hanno? Che parole usano? Un po’, secondo me, già conosci la risposta a queste domande perché ci hai già fatto caso, sicuramente, in passato e ti sarai detto o detta “ma guarda, parlano di cibo ma sembra che parlino del loro amore più grande”.
L’italiano del cibo è un italiano romantico che molto ha in comune con la lingua dell’amore e con la lingua che si usa con i bambini: pensaci, come si parla ad un bambino? Sicuramente non si utilizzano termini tecnici scientifici, né strutture grammaticali avanzate.
Che dire dunque delle parole che si usano per parlare del cibo in Italia? Da dove vengono? Che cosa possono raccontarci?
Cercherò di rispondere a queste domande, oggi, in questo episodio, esplorando la lingua che si usa per parlare di cibo.
Incominciamo, dunque, da una lingua più tecnica.
Nel XVIII secolo in Europa occidentale, e prima di tutto in Francia, si verificò una grande rivoluzione alimentare che determinò un cambiamento considerevole nel concetto di gusto in Europa.
Le salse grasse furono sostituite da quelle acide, si ridusse l’uso delle spezie in cucina, si incominciarono a valorizzare sapori naturali; l’agro e il dolce, fino ad allora molto mescolati in cucina, incominciarono ad essere separati nella preparazione dei piatti.
In questa rivoluzione culinaria la Francia assunse un ruolo fondamentale, anzi ne fu la propulsatrice, cioè la nazione che più di tutte ne determinò l’avvio.
Questo ruolo dominante che ebbe la Francia si evince, oggi, dalle parole in francese utilizzate in italiano nel linguaggio tecnico della cucina, parole come ‘escalope’, ‘fricandau’, ‘soufflet’, ‘mignone’, ‘gateau’ (chiedo scusa per la mia terribile pronuncia francese).
Altri termini francesi, invece, sono stati italianizzati: ‘en papilotte’ diventa ‘in papigliotte’ (parola che significa ‘al cartoccio’, un particolare metodo di cottura); la parola francese ‘jambone’ (prosciutto) diventa ‘giambone’ in italiano, la ‘bechamel’, una salsa, diventa in italiano ‘la besciamella’ (parola ancora oggi usata, salsa ancora oggi usata per condire lasagne e cannelloni al forno).
Anche alcuni termini relativi alle tecniche di cottura sono italianizzazioni di termini francesi, come ‘gratinare’ cioè ‘abbrustolire’ (ancora oggi usato), ‘fambare’ (versione antica dell’attuale ‘flambare’), ‘imbianchire’, parola ancora oggi usata e che significa ‘lessare’, cioè cuocere in acqua bollente, come la pasta.
La grande rivoluzione linguistica, però, nell’ambito del linguaggio tecnico della cucina italiana si sarebbe verificata circa un secolo dopo, grazie ad un altro famosissimo ricettario che contribuirà alla creazione di una lingua unitaria…ricordi come si chiama?
Mi sto riferendo a Scienza in cucina , il ricettario scritto e curato da Pellegrino Artusi.
Abbiamo già avuto modo di vedere che l’Artusi, nome con cui ci si riferiva (e ci si riferisce ancora) al ricettario, entrò nelle case di milioni di italiani e italiane da nord a sud influenzando notevolmente il loro italiano, e con questa influenza contribuì molto più della scuola all’unificazione linguistica del giovane stato italiano.
Per scrivere il suo ricettario Artusi utilizzò come modello linguistico di riferimento il fiorentino (ricorda che ancora non esiste una lingua nazionale come oggi noi la conosciamo, l’italiano è ancora in questo periodo in fase di formazione e standardizzazione, e per antica tradizione la lingua parlata a Firenze è sempre stata scelta come lingua di riferimento, lingua locale che per le sue caratteristiche sarebbe potuta diventare lingua nazionale).
Alcune parole del fiorentino, presenti nel ricettario, fanno ancora oggi parte dell’italiano, come ‘avvezzo’ (cioè ‘abituato’), ‘canzonare’ (cioè ‘prendere in giro’), ‘stuccare’ (che viene detto di un cibo che non gradiamo molto, che ci dà la nausea, per il motivo che in esso c’è la presenza eccessiva di qualche ingrediente; ad esempio, se in un dolce c’è troppo zucchero io dico che ‘stucca’, ‘è stucchevole’ perché appunto c’è troppo zucchero e la presenza eccessiva dello zucchero mi disturba).
Ora, invece, vi riporterò alcuni tecnicismi culinari che ancora oggi si usano, e che ad esempio potete sentire a MasterChef Italia o nel programma di Benedetta Parodi.
Tra questi tecnicismi abbiamo ad esempio l’espressione ‘prendere colore’, un’espressione che usiamo per indicare che il cibo sta incominciando a cuocersi, quindi quando il cibo, un cibo che stiamo cucinando, inizia a cuocersi diciamo ‘mmh sta prendendo colore’; altri tecnicismi sono ‘rosolare’, ‘tritare’, ‘unire’ (di solito un ingrediente ad un altro), ‘battere’ (di solito la carne, anzi principalmente la carne), oppure ‘cuocere a bagnomaria’ cioè cuocere un cibo non a contatto diretto con l’acqua ma in un contenitore che è poi immerso in acqua bollente.
Nell’Artusi, inoltre, troviamo parole italianizzate dal francese, ‘cotoletta’, ‘maionese’, ‘glassa’, ‘scaloppine’; dall’inglese, ‘bistecca’, ‘budino’, ‘rosbiffe’ (dall’inglese roast-beef ); ed infine troviamo parole italianizzate dall’arabo, come ‘cuscussu’ che è la versione italiana di cous cous .
Alcune parole straniere però si conservano, come krapfen , babà , brioches (chiamata ‘brioscia’ dalle mie parti), o ancora cognac, champagne, sandwich e strudel.
I forestierismi presenti nell’italiano della cucina ci danno un’ennesima prova del concetto di scambio che abbiamo già discusso in alcuni podcast precedenti.
Per quanto concerne ciò che abbiamo già detto sullo scambio, aggiungiamo che l’italiano della cucina si forma grazie ad Artusi e al suo ricettario, entra nelle case italiane e così facendo crea un linguaggio comune, condiviso, soprattutto dal punto di vista del vocabolario.
L’identità culinaria italiana è presente principalmente nel vocabolario della cucina che analizzato più nei dettagli ci mostrerà le categorie diversissime che abbraccia: la categoria degli ingredienti, cioè le categorie alimentari come carne, pesce, verdure, frutta, latticini, cereali; i termini specifici per le varietà di ingredienti, ad esempio i diversi tipi di formaggi, i tagli di carne, le varietà di pomodori.
Pomodoro san Marzano, pachino, cuore di bue, costoluto fiorentino, ciliegino, datterino, pomodoro cocktail, corbarino, giallo del Vesuvio.
Il vocabolario include le parole delle tecniche di preparazione, dei metodi di cottura (‘arrosto’, ‘sauté’, ‘grigliare’, ‘bollire’, ‘stufare’), dei tagli del cibo (‘julienne’, ‘brunoise’, ‘filetto’), dei condimenti e delle salse (‘riduzione’, ‘emulsione’, ‘marinatura’).
Include anche i termini per le attrezzature di cucina, come ‘sbattitore’, ‘frullatore’, ‘spremiagrumi’, ‘mestolo’, ‘coltello da chef’, ‘frusta’, ‘setaccio’, ‘polverizzatore’.
Troviamo poi le parole per descrivere la quantità: ‘spolverata di prezzemolo’, ‘grammo’, ‘chilo’, ‘millilitro’, ‘tazza’, ‘parti uguali’, ‘una tazza da caffè’, ‘un pizzico di sale’, ‘una spolverata di’, ‘un goccio di’, ‘una punta di’.
Dopo aver visto l’apparato materiale dell’arte della cucina, nel momento in cui si passa a quello decorativo si trova il lessico che serve a presentare il cibo: ‘un filetto su un letto di insalata’, ‘nocciole guarnite con una crema al pistacchio’, ‘riso accompagnato da verdurine di stagione’, ‘la pancetta abbraccia il pollo’, ‘la salsa e le verdure si incontrano in un connubio perfetto’, ‘un concerto di sapori’, ‘una melodia di note diverse ma equilibrate’, ‘una gioia per il palato’.
E che dire degli aggettivi usati per descrivere il cibo?
Sono aggettivi superlativi (bellissimo, buonissimo, odorosissimo, intensissimo); sono aggettivi aulici, ricercati (nobile, eccelso, illustre, sublime, solenne, magistrale, grandioso, sacro, sacrosanto, splendido, solenne); sono aggettivi spesso usati per descrivere il corpo delle donne (sinuoso, armonico, formoso, generoso, accogliente, avvolgente, confortante).
Quando si legge un libro di ricette si potrebbe avere l’impressione di leggere le poesie di un poeta romantico, quasi che si stessero leggendo le poesie di Dante per Beatrice, insomma.
L’italiano delle ricette è cerimonioso, stucchevole, elogiativo, sentimentale, poetico, aulico, e rappresenta pienamente il rapporto degli italiani con il cibo, la considerazione che hanno di esso, la relazione che instaurano con esso, una relazione sentimentale e sensuale, aggiungerei, perché gli italiani hanno un rapporto fisico con il cibo oltre che mentale, per questo le descrizioni che si fanno del cibo riguardano spesso i cinque sensi.
L’italiano si fa tenero, si addolcisce se si parla di cibo e memoria, se si ricorda ad esempio il cibo dell’infanzia, se si ricordano i piatti di persone care che non ci sono più.
La lingua diventa veicolo di identità, la lingua esprime una parte dell’identità, in questo caso l’identità riguarda il rapporto con il cibo e anche, aggiungo, con la diversità: nonostante la presenza di un vocabolario del cibo condiviso da nord a sud, da isole a penisola, le parole del cibo possono variare da regione a regione.
Per esempio, si pensi alla differenza tra cornetto, croissant e brioche o brioscia (come si dice al sud).
In Italia, riguardo a cosa sia una brioche, un croissant o un cornetto, ci sono delle differenze regionali.
La brioche, che può variare nelle preparazioni regionali, è caratterizzata da una consistenza soffice e gonfia ed è generalmente preparata con burro, farina, zucchero, uova, lievito, acqua e strutto. La brioche può essere servita vuota o farcita con creme, cioccolato o confetture.
D’altra parte, invece, il cornetto ha origini viennesi ed è giunto in Italia nel 1683 attraverso gli scambi commerciali con Venezia. La sua preparazione include farina, latte, uova, zucchero, sale, burro e lievito, e può essere farcito o no. La forma del cornetto riflette il suo nome.
Infine, il croissant, derivato anch’esso dal kipfel viennese, è nato a Parigi nel 1838. A differenza del cornetto, la ricetta del croissant non contiene uova (se non un po’ di albume per lucidare la superficie) e ha una minore quantità di zucchero, cosa che lo rende più leggero e gli conferisce un sapore neutro, adatto anche per essere abbinato a salumi e formaggi.
La gente conosce davvero la differenza tra queste tre parole? Da ciò che posso ascoltare, direi di no, questi tre nomi hanno una diffusione regionale diversa. Quando vado a fare colazione al bar mia nonna ordina una brioscia, ma per lei la brioscia è il cornetto.
Quindi, per concludere, quali sono i tratti dell’identità culinaria italiana che emergono attraverso l’analisi della lingua della cucina? Amore per il cibo, amore sensuale e carnale per il cibo, approccio poetico al cibo ed infine la nostra amata diversità.
Sì, perché nonostante l’intento di Artusi di dare una sola lingua al cibo, una lingua che fosse pulita e corretta, sebbene l’azione artusiana sia stata importantissima per avere un punto di partenza comune, le diversità regionali e locali hanno fatto e fanno sì che la lingua fosse e sia sempre insofferente alla normalizzazione, sempre volatile, in scambio continuo, in cambiamento continuo.
La lingua sarà sempre scompigliata dalla creatività del mondo del cibo, della sua produzione, della sua vendita, della sua preparazione e del suo consumo, eccetto che non venga in mente a chi ci governa, come avvenne durante il fascismo, di attuare delle politiche di conservazione linguistica.
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