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Le cucine regionali

Trascrizione

Manca poco, ancora qualche tappa e il viaggio arriverà al termine dell’obiettivo che si era prefisso al principio: dimostrare che si può parlare di identità italiana condivisa da tutti, che esiste, insomma, un’identità italiana, che possiamo parlare di cucina italiana.

In questo episodio, avvalendomi di un’altra fonte, vorrei approfondire il concetto delle cucine regionali, per dimostrare come esse non sempre corrispondano alla realtà storica culturale ma siano piuttosto concetti artificiali, non completamente ma parzialmente artificiali.

Massimo Montanari in L’identità italiana in cucina , parla molto bene di questo concetto delle cucine regionali, e ci fa vedere come questo sia anche un espediente di marketing.

In un capitolo del suo saggio, Montanari esplora l’evoluzione concettuale delle cucine regionali italiane.

Queste cucine, scrive, citando Vito Teti, e dicendo una cosa che abbiamo già avuto modo di vedere negli episodi precedenti, queste cucine sono il risultato della convergenza di «elementi disparati, frammentari, disomogenei, provenienti da diverse località di una stessa regione e spesso da altre regioni».

Nella cucina italiana i piatti tradizionali, originariamente associati a contesti di povertà e fame, sono stati estrapolati da tali condizioni e collocati in un nuovo contesto alimentare, associato a sicurezza e benessere. Questo ha portato a una ridefinizione dei valori dietetici, simbolici e rituali di tali piatti.

Nel capitolo si sottolinea che, laddove è possibile ricostruire singole ricette, è impossibile replicare completamente una cucina, uno stile di vita o le disponibilità alimentari del passato.

Dunque, l’affermazione della tradizione in contesti diversi è un atto di creazione di nuove tradizioni.

L’autore contesta l’idea di valorizzare il territorio come dimensione specifica della cultura gastronomica, sottolineando che nel Medioevo e nella prima età moderna, la cucina delle élites mirava a superare il localismo, dal momento che i prodotti locali erano associati anche alla povertà contadina.

Ricchi e poveri attingevano agli stessi prodotti locali. Il territorio era visto come lo spazio da cui attingere prodotti o ricette per creare una sorta di “tavola globale” all’interno della quale le élites volevano differenziarsi.

Dunque, l’ideologia della differenza, che assegnava allo stile alimentare il compito di manifestare le appartenenze sociali, era inizialmente incompatibile con l’attribuzione di un valore culturalmente significativo al territorio, in altri termini il territorio non era un valore nel Medioevo.

Il vero valore era l’estrazione sociale e ciò che ogni classe sociale faceva con i prodotti provenienti dallo stesso territorio.

Solo con lo sviluppo del pensiero liberal-democratico, accompagnato dalla crescita della classe borghese e dell’economia industriale tra il XVIII e il XIX secolo, il territorio ha assunto un valore distintivo nelle identità alimentari.

Montanari analizza la valorizzazione delle identità territoriali in un contesto italiano preunitario, evidenziando che fino all’unità d’Italia i riferimenti cittadini, dunque a città d’Italia, erano più comuni nei manuali di cucina rispetto ai riferimenti regionali. La tendenza a definire identità regionali emerge in concomitanza con il processo di unificazione politica del paese.

La suddivisione regionale diventa fondamentale nel primo progetto di inventariazione del patrimonio alimentare italiano del 1928, voluto dal regime fascista e culminato nella pubblicazione della Guida gastronomica d’Italia nel 1931 da parte del Touring Club Italiano. La categorizzazione culinaria, dunque, è stata forzata dal regime fascista, è stata il risultato di un atto di categorizzazione umana, non naturale.

Montanari critica questa forzatura di includere ricette e prodotti entro confini regionali amministrativi predefiniti, sottolineando che in questo modo si creano legami artificiali e si spezzano quelli esistenti.

Le regioni come costrutti politici non corrispondono alla realtà storico-culturale persistente, e questo complica la comprensione della cultura gastronomica italiana.

Infine, l’autore esamina l’esportazione dell’immagine regionale della cucina italiana all’estero, specialmente negli Stati Uniti, dove i supermercati spesso presentano prodotti con etichette “lombarde”, “venete”, eccetera, dimostrando come il concetto di regione sia strumentale al marketing, sia pilotato dal marketing e non corrisponda alla realtà reale ma piuttosto ad una realtà costruita, resa artificiale ai fini delle vendite.

Questa rappresentazione, sebbene possa funzionare commercialmente, rischia di oscurare la natura locale e nazionale della cucina italiana, quando invece è importante riconoscere la diversità e la complessità della sua tradizione culinaria ma nell’ambito di un’identità nazionale.

Cosa concludere dunque? Non esistono le cucine regionali siccome le regioni sono costruzioni amministrative nate dopo l’unità d’Italia? Le cucine regionali sono solo delle invenzioni?

No, non lo sono. Esistono tratti regionali ma vanno inseriti all’interno del processo di scambio di cui abbiamo già discusso. Il concetto di regionale ha senso solo se inserito in un contesto di scambio dove niente è fisso ma sempre in movimento e senza confini precisi.

Ecco, questa è una bella immagine. Cerchiamo di vedere, dal punto di vista della cucina, le regioni italiane come dei luoghi ma con i confini non marcati, con i confini trasparenti quasi, confini che si confondono. Vediamole così e ne capiremo la vera natura che è di unione e non di confine e di separazione.

I confini scivolano uno dentro l’altro, si confondono, si ibridano, si spostano, viaggiano, ritornano, si stabiliscono e poi si mettono di nuovo in movimento.

Ecco, questo secondo me è il modo giusto di guardare i confini tra le regioni italiane e le loro cucine dimodoché se ne possa comprendere appieno la natura.

Ripeto, l’identità è nello scambio, tranne che, ripeto, non si voglia strumentalizzare la cucina italiana ai fini della propaganda ideologica.

E io ti parlo di ciò non perché sono spinta, a mia volta, da un’ideologia, ma perché questi sono fatti: non c’è purismo nella cultura, non ci sono confini netti, tanto è vero che risulta difficilissimo descrivere qualsiasi fenomeno culturale proprio per il fatto che i confini non sono netti.

Dunque, gli italiani e le italiane che parlano di purismo in cucina almeno lo facciano consapevoli di star propagandando una propria idea e non un fatto e che dicono e pensano cose come le hanno ereditate, dunque queste cose non sono naturali.

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