1861, l’Italia, politicamente, è fatta, adesso…bisogna fare gli italiani.
Questo, come abbiamo già visto in percorsi precedenti e come vedremo in quello futuro, era l’obiettivo principale del neonato stato italiano, uno stato che vuole omogeneizzare la cultura del suo popolo per renderla più italiana e meno regionale.
Questa unificazione culturale fu un processo che partì dall’alto, dallo stato e dalla borghesia, la classe dominante, e andò verso il basso, in direzione del popolo.
Quantunque fossero mossi dallo stesso obiettivo, stato e borghesia sono intervenuti in modo diverso, con azioni diverse che adesso vedremo insieme.
Iniziamo dagli interventi della borghesia.
La borghesia ha determinato l’affermazione di una cucina borghese, ossia ha diffuso la moda di una cucina più semplice e meno creativa.
La cucina borghese aveva alla sua base pasta, patate, vitello, pollo e pesce bianco, prediligeva i cibi morbidi, poco salati e di colore naturale, aveva un forte pregiudizio verso cibi esotici e stranieri.
Come ha fatto questa cucina ad imporsi a livello nazionale?
Ricordi Pellegrino Artusi e il suo libro di ricette?
Le ricette raccolte da Artusi contenevano questo ideale di cucina che grazie alla grandissima diffusione del suo libro è entrato nelle cucine degli italiani nel modo che ho già raccontato in un episodio precedente.
Molto più dirompente e livellante fu l’intervento statale.
Innanzitutto, ci furono gli interventi dell’istituzione militare nelle accademie e durante le guerre: ricordiamo che dopo l’unificazione il servizio militare diventò obbligatorio in Italia, e dunque italiani provenienti da ogni parte della penisola e dalle isole furono sottoposti allo stesso regime alimentare.
In questi ambienti, nelle abitudini alimentari si imposero stimolanti come caffè, tè, zucchero e cioccolata.
Le guerre portarono i cibi industriali, i cibi in scatola, pasta secca, scatolette di carne, baccalà, formaggi come fontina, emmental e provolone che ancora oggi sono tra i più consumati tra gli italiani.
Se chiedi a un italiano “quale formaggio metti nel panino?”, sentirai sicuramente uno di questi formaggi.
Questi stessi prodotti e queste stesse abitudini alimentari di stampo militare vennero portate nelle mense operaie, nelle colonie, nelle mense scolastiche, negli ospedali e in tutti gli organismi statali che fornivano cibo.
Mia nonna mi racconta sempre che quando era piccola, a scuola, a mensa, ha assaggiato per la prima volta prodotti industriali come la carne in scatola e il latte al cioccolato, prodotti a cui non era abituata, che non conosceva.
Questi interventi hanno imposto l’uso di cibo industriale nelle case degli italiani contribuendo ad omologarne i gusti e le abitudini.
Ovviamente, il processo non fu totalmente livellante, infatti non dobbiamo dimenticarci di quanto variegato continuasse ad essere il panorama culinario italiano: le cucine locali non scomparirono, le tradizioni regionali non si estinsero per lasciare totalmente spazio a una cucina nazional-industriale.
Gli interventi di stato e borghesia vennero fatti in un contesto variegatissimo che non si estinse completamente ma che interagì con questi interventi portando a incontri e ibridazioni.
La salsa di pomodoro industriale sostituì quella casereccia, ma la ricetta del ragù della domenica rimase la stessa. In Calabria nel sugo ci mettevano un po’ di peperoncino, in Sicilia un po’ di zucchero, l’aglio a Napoli, insomma, come sempre nulla scompare realmente bensì tutto si incontra trovando un nuovo equilibrio, nuovi sapori.
Tranne che non si sia spinti da certe ideologie, è secondo me un po’ ingenuo pensare che l’identità, qualsiasi identità, non sia nello scambio, nell’ibridazione, nell’incontro.
Io cucino il sugo come mia madre e mia nonna, mia nonna lo cuoce per ore, mia madre per un’ora, io per 40 minuti perché mi piace più liquido. Io al sugo ci aggiungo i semi di sesamo, per mia nonna e mia madre è impensabile, io però faccio parte di una generazione influenzata dai sapori dell’Asia che integro nei miei piatti, che combino con cibi italiani.
Eppure, sono italiana, non meno italiana di chi fa il sugo tradizionale, non meno italiana della mia bisnonna che preparava tre quintali di salsa di pomodoro ogni estate con i pomodori del mercato di Bari. La mia bisnonna nel sugo ci metteva le polpettine di pane e carne perché la carne costava assai, mia nonna nel sugo ci mette i pezzi di carne intera, mia madre il macinato di carne perché il ragù con i pezzi grossi è all’antica per lei, io sono vegetariana e nel sugo metto i semi di sesamo.
Chi è la più italiana tra noi quattro? Per il fatto che metto i semi di sesamo nel sugo, non posso essere considerata italiana?
E poi, dove è scritto che il nuovo debba cancellare necessariamente il vecchio? Le vecchie tradizioni non sono scomparse, tanto è vero che io due anni fa ho fatto la salsa in casa con i quintali di pomodori dell’orto del mio compagno. Non posso farla ogni anno, la faccio quando ho tempo.
Per me la cosa importante è che la domenica si cucini il sugo di pomodoro e lo si mangi in famiglia, perché la domenica non si può mangiare da soli.
Salvo che si veda ciò come valore importante, questa è l’identità culinaria italiana, questo significa essere italiani.
Non vedo l’ora di conoscere persone di famiglie miste, formate da un genitore italiano e uno straniero e di vedere le tradizioni culinarie ibride che loro creeranno, il nuovo volto che daranno all’identità culinaria del paese di cui sono cittadini.
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