Lingua italiana insieme
Intervista: il sardo è un dialetto o una lingua?
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Che cos’è una lingua? Che cos’è un dialetto? Che rapporto c’è tra lingua e dialetto? Oggi in Italia si parla ancora il dialetto? Se sì, quando? Che ruolo ha il dialetto, oggi? Nell’intervista di questo mese, insieme alla mia amica Anna, sarda, cercheremo di rispondere a queste domande, facendo un focus sul sardo che è…un dialetto? Una lingua?
INTRODUZIONE
State ascoltando “la lingua e le cose”, una rubrica prodotta da LerniLango, un’infrastruttura online per l’apprendimento della lingua italiana. Per saperne di più e per leggere la trascrizione dell’intervista vienici a trovare su LerniLango.com. Per adesso buon ascolto dell’intervista “Il sardo, lingua o dialetto? Parliamo di lingua e dialetti con Anna”.
Ciao e bentornati e bentornate nelle interviste di LerniLango. Nell’intervista di questo mese ho scelto di farvi ascoltare l’accento della Sardegna, infatti l’ospite di questo mese sarà la mia cara amica dell’università, Anna, sarda. Con Anna, nell’intervista di questo mese, parleremo del rapporto tra lingua e dialetti (con un focus sulla lingua sarda), e lo faremo raccontandovi tanti episodi delle nostre vite che vi faranno capire in modo più divertente e concreto questo rapporto.
Non aggiungo altro e vi lascio alla nostra chiacchierata!
Buon ascolto.
INTERVISTA
SIMONA: Ciao a tutti e ciao a tutte! Bentornati e bentornate nelle interviste di Lernilango! Intervista mensile di luglio! Per questo mese io sono qui a Firenze. In questo momento siamo a Firenze, sul lungarno di Firenze, abbiamo appena bevuto un tè fresco con la mia amica Anna, che è qui di fronte a me. E con Anna, anche se siamo adesso a Firenze, parleremo di qualcosa che non è posizionato geograficamente qui, ma è posizionato geograficamente al di là del mare. Come si chiama questo mare? Tirreno, Adriatico? Il Tirreno, benissimo! Al di là del Mar Tirreno, scusate io ho problemi con i nomi dei mari, dei fiumi, dei laghi, delle montagne…quindi, di questo posto geograficamente posizionato al di là del Mar Tirreno, che è la grande isola della Sardegna. Quindi oggi con Anna andremo in Sardegna, perché la mia amica Anna viene dalla Sardegna, è sarda, e con lei faremo quattro chiacchiere molto informali sui dialetti, perché sia lei che io siamo cresciute parlando una seconda lingua, potremmo dire. Per 19 anni della nostra vita, prima di trasferirci a Siena, perchè è a Siena, all’università, che ci siamo conosciute, abbiamo parlato dialetto per buona parte della nostra esistenza, insieme all’ italiano. Quindi oggi vorremmo appunto fare quattro chiacchiere sul dialetto. Ripeto, io e Anna ci siamo conosciute a Siena, all’Università di Siena: io ero in triennale, studiavo Lettere moderne in triennale, Anna era più grande di me e studiava in magistrale di linguistica, giusto Anna? Conferma…
ANNA: Confermo!
SIMONA: Anna conferma. Benissimo! Quindi oggi darò la possibilità di ascoltare un po’ di accento sardo, grazie ad Anna, e quattro belle chiacchiere sul dialetto. Quindi io adesso smetto di parlare, perché altrimenti come sempre parlo troppo, e lascio la parola ad Anna che vi racconterà un po’ di sè e vi dirà un pochino cosa fa, da dove viene, eccetera eccetera. Prego cara Anna, a te!
ANNA: Ciao a tutti! Io sono Anna, non mi vergogno di dire l’età perché insomma, anche quello fa parte di noi, ho 30 anni e a breve 31. Vivo a Firenze dal 2016, ma sono stata adottata dalla Toscana nel lontano 2010, quando dalla lontana Sardegna mi sono trasferita a Siena per l’università, dove ho conosciuto Simona, purtroppo a termine (quasi) della mia carriera universitaria, perché era il mio primo anno della laurea magistrale. A Siena, appunto, ho studiato Lettere moderne alla triennale e linguistica e studi cognitivi alla magistrale. Ora sono a Firenze, come vi ho detto appunto dal 2016. Perché sono a Firenze? Perché dopo diverso tempo di vagabondaggio, come io lo chiamo, ho deciso di restare in Toscana, di stabilizzarmi insomma in questa regione che considero meravigliosa sotto tanti punti di vista (che non sto ad approfondire ora, dato che non è la sede adatta). Lavoro in una scuola per stranieri, principalmente lavoriamo con studenti americani e olandesi. È una scuola di lingua italiana, ma non solo, perché offre corsi di vario tipo. Io mi occupo principalmente di coordinare tutta la gestione dell’housing, quindi lavoro all’ufficio alloggi. Tengo i contatti con le università estere con cui appunto collaboriamo, faccio attività di diverso tipo, quindi dalle attività di check-in al momento dell’arrivo, il welcoming degli studenti, la gestione di tutte le problematiche che ci possono essere durante il loro soggiorno, fino al momento del loro check out. Insomma, tutte le attività che concernono l’ housing.
SIMONA: Okay…
ANNA: Non mi sono occupata solo di questo durante il mio percorso lavorativo, però diciamo che ho sempre avuto a che fare con gli stranieri. Perché? Perché ho avuto la fortuna, l’enorme fortuna, che considero la più grande opportunità che io abbia avuto, di vivere per un anno negli Stati Uniti, dove ho collaborato con una università americana, principalmente al dipartimento di italiano, dove, appunto, collaboravo con l’insegnante di italiano di cui ero, diciamo, l’assistente.
SIMONA: Teaching assistant?
ANNA: Esatto! Sono tornata in Italia dopo quest’anno appunto in America, ho continuato a collaborare in Italia per questa università: ho lavorato alle Summer School che questa scuola offriva e lì, diciamo, che ho avuto il primo vero contatto con quella che avevo scoperto essere la mia passione che, nonostante non sia diventata il mio lavoro principale, resta tale, resta una passione. Infatti, questo lockdown che ci ha costretto a stare a casa, mi ha permesso di trovare il tempo che, purtroppo o per fortuna, era tanto, per dedicarmi appunto a certificare quella che è stata la mia esperienza di insegnamento di italiano per stranieri. Essendo appunto una passione che non voglio mettere via, mi piacerebbe, diciamo, far riemergere e rimettere un po’ in moto questa attività, ecco! Quindi ora sono qui a Firenze con Simona, mi fa molto piacere…insomma…
SIMONA: Partecipare a questo progetto.
ANNA: Partecipare a questo progetto, si!
SIMONA: Bene, per farci ascoltare un po’ il tuo accento, che non è molto marcato devo dire…
ANNA: …non è molto marcato..
SIMONA: Non hai un accento sardo marcato, si sente un pochino, ma bisogna proprio concentrarsi e trovarlo per dire che c’è questo accento, però c’è! L’orecchio attento lo può osservare. Infatti, i nostri ascoltatori di queste interviste sono studenti di livello avanzato, quindi: signori e signore che ci state ascoltando, aprite le orecchie e cercate di capire dove si trova la particolarità sarda nell’accento di Anna! (RISATE). Quindi, quindi…grazie per la tua presentazione innanzitutto, e facciamo innanzitutto una…come dire, un chiarimento terminologico. Perché? Noi abbiamo parlato di dialetti, parleremo di dialetti. Però il mio dialetto, il dialetto salentino, quello che io parlo, può essere considerato un dialetto, invece il sardo non è un dialetto, giusto?
ANNA: Esattamente!
SIMONA: Ma è una lingua! Il sardo viene considerato come una lingua a tutti gli effetti. Quindi, ci spieghi…come prima domanda che ti faccio, potresti spiegarci che cosa significa che il sardo è considerato come lingua e non come un dialetto.
ANNA: Allora, diciamo che è una differenza terminologica che da spiegare richiederebbe più tempo, però preferisco, diciamo, dare una spiegazione piuttosto generale, per far capire qual è la differenza sostanziale tra il dialetto e la lingua, la lingua sarda. Il sardo è considerato una lingua perché, a differenza del dialetto, ha effettivamente una sua struttura precisa dal punto di vista morfologico, fonologico e sintattico. Deriva dal latino ed è la lingua romanza neolatina più antica di sempre. Non esiste IL sardo, ma esistono quattro categorie di sardo, e io faccio parte del sardo-campidanese, perché è appunto quello che è concentrato nella zona di Cagliari e dintorni: infatti io provengo da un paese in provincia di Cagliari e, infatti, nella mia famiglia si parla il sardo campidanese. Quello che, da parlante di lingua sarda, io noto, e che mi fa vedere ogni giorno (anche se in realtà dire ogni giorno è sbagliato, perché io non parlo sardo ogni giorno però quando ci penso), è che quando io parlo sardo non c’è una parola italiana nelle mie espressioni.
SIMONA: Okay…
ANNA: Quando, invece, parlo con una persona appunto come Simona, che ha un dialetto completamente diverso, io ritrovo nel suo dialetto (perché il suo è un dialetto) delle parole italiane, che possono essere gli articoli esattamente uguali all’italiano, magari su una frase di 6 parole due possono essere in italiano standard e le altre quattro nel dialetto. Nella lingua sarda non c’è una parola che è corrispondente all’italiano. Quindi anche questo, dal punto di vista di parlante, è una cosa che dico: Il sardo è proprio una lingua a sè!
SIMONA: Certo, certo…
ANNA: È una cosa che mi dicono anche gli amici quando magari si chiacchiera e mi dicono “Anna, mi puoi tradurre questa frase in sardo?”. Non c’è una parola che resta uguale all’italiano!
SIMONA: Certo, si, si, capisco questa sensazione, questa cosa! Non perché la vivo nel mio dialetto ma…capisco questa cosa che dici, che quando ascolti i dialetti c’è sempre qualche parola italiana che tu riesci a riconoscere…
ANNA: Esatto…
SIMONA: Quindi anche quando io sento persone del nord che parlano dialetto, magari su 10 parole me ne sfuggono 8, però quelle 2 io le sento, le percepisco perché sono come in italiano, quindi le vedo, le sento e le riesco a percepire, okay?
ANNA: E poi vorrei aggiungere anche una cosa: è proprio dal punto di vista sociale e culturale che la lingua sarda è considerata lingua e non dialetto, perché se si è arrivati a mettere per iscritto il fatto che la lingua sarda, che il sardo è riconosciuto come lingua, non è che di punto in bianco qualcuno si è svegliato e ha deciso che il sardo è una lingua: è il parlante che via via, dal punto di vista culturale e sociale, ha fatto sì, col suo approccio alla lingua sarda, a far sì che questa venisse considerata tale..
SIMONA: Certo, si sente riconosciuto come sardo quando parla il sardo…
ANNA: Esatto, esatto.
SIMONA: Io non mi sento riconosciuta come salentina quando parlo il mio dialetto salentino, cioè io sento che sto parlando dialetto, non sento lo switch linguistico mentre mi sposto dall’italiano al salentino, come mi succede con l’inglese: se mi metto a parlare inglese, che è un’altra lingua, lo sento che sto cambiando…
ANNA: Esatto.
SIONA: Se parlo il dialetto, sì, ovviamente l’impostazione cambia, certamente, perché al dialetto è legata una parte della mia vita, una parte della mia esperienza diversa da quella dell’italiano, però non mi sento mentalmente predisposta, non mi sento che sto cambiando lingua mentalmente. Okay? Mi sento sempre nel settore dell’italiano, in un piccolo recinto nel mondo dell’italiano.
ANNA: Esatto! Una cosa che vorrei aggiungere, che secondo me appunto definisce ancora di più la differenza tra lingua e dialetto, è ad esempio la separazione dei due codici nel momento in cui, in alcuni paesi in Sardegna, anche nel mio, ci sono i cartelli stradali in italiano e sotto in sardo…
SIMONA: Non sapevo questo…
ANNA: Una volta mi è successo (forse 5 anni fa, quando dovevo rinnovare la mia carta d’identità): mi recai al comune ed ero lì ad aspettare e mi sono resa conto che c’erano dei cartelli di spiegazioni, anche solamente di indicazioni (andare qui, andare là), che erano scritti da una parte in italiano e dall’altra in sardo. Lì per lì, la prima impressione che ho avuto è stata: essendo un paese di 8000 anime, magari è stato fatto principalmente per le persone un po’ più anziane che l’italiano lo parlano pochissimo, per facilitare…
SIMONA: La comprensione…
ANNA: …la comprensione, poi in realtà, con una riflessione magari un po’ più approfondita, ho detto: “No ragazzi, qui c’è la separazione perché hanno voluto tradurre – perché di questo si è trattato – le due cose, in italiano e in sardo perché sono due lingue diverse. Quindi anche questo fa capire proprio la considerazione del sardo come lingua a sé..
SIMONA: Certo, e non come dialetto…
ANNA: Esatto…
SIMONA: Nel mio paese non ci sono scritte per strada in dialetto salentino, francavillese in questo caso, assolutamente. Esiste forse una sola opera letteraria scritta in dialetto, che io ho studiato per la mia tesi di laurea triennale. A parte quella testimonianza, di scritto, nel mio dialetto, non esiste nulla, e quindi faccio anche questo esempio per farvi capire, ecco, ancora di più, le parole di Anna: non c’è, quando c’è una testimonianza scritta, un qualcosa di scritto, di ufficiale, come può essere un cartello stradale o un cartello delle indicazioni in un ufficio pubblico, lì capiamo che non siamo di fronte a un dialetto, ma siamo di fronte a una vera e propria lingua, con un suo esercito e con una sua marina, no? Perché questa è la solita metafora che si fa quando si parla di lingue e dialetti. Va bene bene Anna, grazie per questo, hai altro da aggiungere su questo argomento?
ANNA: No, mi fermerei qui…
SIMONA: Perfetto, allora passerei alla seconda domanda. Questa domanda è, come dire, un po’ più personale. Allora, ovviamente abbiamo già detto all’inizio che noi siamo cresciute parlando due lingue sostanzialmente: il dialetto io, il sardo tu, l’italiano entrambe. Quindi, quando poi sei andata a Siena all’università…chiedo perché è una cosa che è successa anche a me, questo spaesamento linguistico. Cioè tu sei convinta di arrivare lì e dire “Okay so parlare l’italiano”, arrivi lì e ti rendi conto che c’è gente che parla un italiano diverso dal tuo. Quindi quando sei arrivata a Siena, in qualche modo hai sentito che il sardo interferiva con il tuo italiano? E se si, in che modo? Raccontaci questa cosa.
ANNA: Allora, diciamo che lo spaesamento non l’ho mai vissuto. Nel senso che, anche a casa, quindi durante la mia vita quotidiana, vivevo le due realtà linguistiche in maniera molto distaccata, perché io sentivo parlare sardo a casa dei miei nonni, sento tutt’ora parlare sardo tra i miei genitori, i miei genitori parlano sardo tra loro e principalmente con mio fratello (mio fratello maggiore, il figlio più grande). Però, sostanzialmente, sono appunto due realtà linguistiche che io ho sempre vissuto in maniera separata, quindi a casa mia quando si parla italiano si parla italiano, quando si parla sardo si parla sardo, se non magari, durante una conversazione, la cosa è un po’ mista, nel senso che magari io rispondo in italiano a mio padre che mi parla in sardo, però non succede praticamente mai che io mentre parlo italiano, se sto parlando in italiano…
SIMONA: …ti esce il sardo…
ANNA: …tutto ad un tratto parlo in sardo: o parlo italiano o parlo in sardo. Quindi diciamo che lo spaesamento che tu hai nominato io non l’ho vissuto, perché comunque a Siena mi sono trovata a parlare in italiano, il sardo nessuno lo parlava, e quindi… Di sicuro, però, ho notato fortissime differenze dal punto di vista dell’accento, la cadenza…
SIMONA: Ecco, questo dicevo, dovevo essere più precisa…
ANNA: No no, figurati…
SIMONA: Italiano regionale, capito? È questo, perché alla fine parliamo anche di varietà di italiano standard, che comunque hanno la loro coloritura regionale…
ANNA: Esatto…
SIMONA: Mi riferivo a questo principalmente. Hai notato questa differenza?
ANNA: Questo assolutamente sì, ovviamente l’accento, perché l’accento toscano – io dico toscano – però, senese, fiorentino…
SIMONA: Sono diversi…
ANNA: Sono accenti forti e sono totalmente diversi dal mio. Però, anche per quanto riguarda alcuni modi di dire, mi sono trovata, sì, in una situazione che non avevo mai, mai vissuto, come per esempio dire “Si va a fare la spesa”, quindi questa resa impersonale dei verbi, oppure “Stasera si esce?” anziché dire “Stasera usciamo?”, oppure appunto “Si va a fare la spesa con le mie coinquiline”, anziché “Andiamo a fare la spesa?”
SIMONA: O “Ci si vede domani?”
ANNA: “Ci si vede domani?” anziché “Vediamoci domani”. Quindi questo di sicuro. Ora, che appunto sono da ormai 10 anni (mi fa paura a dirlo!) qui in Toscana, sono la prima che quando parlo con delle persone del posto, mi sento come se loro mi capissero più facilmente se uso espressioni impersonali come “Si va a fare la spesa?”, “Ci si vede al parco?”.
SIMONA: Certo, ecco! Perché questo, piccola parentesi, è un tratto dell’italiano regionale della toscana…
ANNA: Esatto…
SIMONA: Loro usano molto le forme impersonali, anche quando, come ha detto Anna, potrebbero dire “Andiamo NOI a fare la spesa”, perché stiamo parlando di te e me…
ANNA: Esatto…
SIMONA: Questa piccola parentesi che chiudo. Vai Anna, continua…
ANNA: Quindi queste differenze di sicuro. Poi ora forse esco un po’ fuori dal binario, però Siena, come tanti sanno, è una città di studenti fuori sede principalmente, quindi io mi sono confrontata principalmente con studenti e amici provenienti dalla Puglia (come Simona), dalla Calabria…
SIMONA: Campania…
ANNA: Dalla Campania…
SIMONA: Siciliani…
ANNA: Siciliani, veneti…, che avevano ancora altre cadenze, altri accenti. Quindi sì, ho vissuto una varietà di italiani regionali abbastanza vasta, ecco. Mi è rimasta impressa una volta una scena: eravamo a cena con degli amici e stavo raccontando di un regalo che mi fece mio nonno. Si trattava di una seggiolina impagliata, di legno, che lui mi aveva regalato però stava a casa sua, e io usavo quando ero a casa sua. In sardo questa seggiolina impagliata di legno eccetera si chiama SCANNITEDDU, SU SCANNITEDDU. Nel raccontare di questo regalo, io ho nominato questo oggetto chiamandolo “Scanno”, “Lo scanno”: io avevo, secondo me, reso in italiano la versione sarda vera e propria, Scanniteddu, e l’avevo trasformata in “Scanno”, pensando che Scanno fosse la versione italiana. Nessuno capiva di cosa io stessi parlando…
SIMONA: Io non ho idea di cosa stai parlando!!! (RIDE)
ANNA: Lì per lì ci sono rimasta un po’ male, perché ho detto “Cavolo, io per 23 anni ho pensato che Scanno fosse una parola italiana”, e lì invece mi è crollato un mito, perché ho detto “No, sono io semplicemente che ho trasferito una parola dal sardo all’italiano”, quindi questa è proprio la cosa che mi rimane più impressa. Sicuramente è successo qualche altra volta, ma ora come ora non ricordo, però dal punto di vista del vocabolario di sicuro qualche altra volta mi è successo di trasferire e tradurre letteralmente dal sardo all’italiano dei termini che in realtà di italiano non avevano niente. Un altro esempio è stato il farmi notare di utilizzare costantemente il passato prossimo al posto del passato remoto per parlare al passato. Anche lì, al tempo mi sembrava una cosa assurda. Ora come ora, che ho di sicuro più contatto con persone toscane (a lavoro, le amiche…), mi rendo conto che magari sono io la prima a utilizzare un passato remoto al posto di un passato prossimo o un imperfetto, che utilizzerei se parlassi con mia mamma, mia sorella, che a volte mi dicono – quando con loro utilizzo dei tempi verbali che non sono comuni – “Anna, che cosa stai dicendo?”. Quindi sì, è vero anche sotto questo punto di vista…
SIMONA: Chi ti ha fatto notare che usavi il passato prossimo al posto del passato remoto? Dei toscani o gente del Sud? Perché me lo aspetto da persone del Sud. Perché, altra parentesi, sappiate che il passato remoto è molto più diffuso al sud che al nord Italia, perché nel nord non usano il passato remoto, o almeno, lo usano non quando parlano, lo usano principalmente nella scrittura. Invece al sud lo usiamo tantissimo. Con sud intendiamo da Toscana in giù, diciamo, centro-sud ecco: Toscana, Lazio e poi via di seguito. Ecco, questa piccola parentesi. Quindi, chi ti ha fatto notare questa cosa?
ANNA: Questa cosa in realtà, se devo essere sincera, mi è stata fatta notare da coinquiline e amiche pugliesi…
SIMONA: (RIDE) Ecco qua!!
ANNA: Perché appunto loro mi fecero…mi hanno fatto l’appunto, che mi ha fatto ora Simona, dicendomi: “Sì, qua pensano di essere loro i padroni (padroni detto in buon senso) della lingua, in realtà anche noi giù usiamo il passato remoto”.
SIMONA: Esatto! Per esempio, in Sicilia, cosa che noi in Puglia non facciamo, usano il passato remoto per parlare di cose finite, che hanno fatto la mattina: “Questa mattina andai al mercato”. Per me questo è: “Stamattina sono andata al mercato”, non “Andai al mercato”. Però per dire che, più a sud vai, più il passato remoto si usa principalmente per azioni finite, che siano due ore prima o due anni prima. Quindi, c’è questa differenza, per questo ti ho fatto la domanda: SUD e NORD! Va bene, e quindi adesso invece, detto questo, passerei alla prossima domanda e ti chiedo: che ruolo ha il sardo nella tua vita? Quando lo usi? Come lo consideri, soprattutto? Quindi partiamo dal primo: qual è il ruolo? Quando lo usi il sardo nella tua vita?
ANNA: Allora, io considero il sardo la mia terza lingua.
SIMONA: Okay.
ANNA: Considero il sardo la mia terza lingua da quando ho sviluppato una fluenza in inglese a livello avanzato, perché quando il mio inglese non era a livello avanzato e mi chiedevano “Anna, quante lingue parli?” io dicevo “Una”, dicevo “L’’italiano”. C’è stato un momento in cui mi è stato fatto notare dalla mia insegnante di storia della lingua italiana, a Siena…
SIMONA: Chi, Belletti?
ANNA: La Belletti, con cui tra l’altro mi sono laureata, che mi aveva chiesto “Tu quante lingue parli?”, io lì per lì avevo risposto “L’italiano e l’inglese, anche se il mio livello non è altissimo” (al tempo ancora non ero così fluente). “Quindi l’italiano e l’inglese, ovviamente non mi posso considerare bilingue” -le avevo detto – “però conosco l’italiano, che è la mia prima lingua, e conosco l’inglese”. E lei mi aveva chiesto “Ma, e il sardo non lo usi? Non lo capisci? Non lo parli?”. Io lì, orgogliosa anche delle mie origini le avevo risposto “No, io il sardo lo capisco bene, lo parlo, lo so parlare, non tanto lo parlo, lo so parlare”, e allora lei mi aveva detto “Allora tu conosci tre lingue”.
SIMONA: Certo!
ANNA: E quindi da allora io dico “Io parlo tre lingue, italiano e inglese (che uso principalmente per lavoro, o per stare in contatto con gli amici stranieri) e il sardo…
SIMONA: E il sardo…
ANNA: Il sardo nella mia vita diciamo che occupa un ruolo che io definirei “dell’infanzia”, perché io l’ho imparato con i miei nonni, non perché loro me lo abbiano insegnato, ma perché io passavo tanto tempo con loro e loro parlavano con me solo in sardo. Diciamo che è stato molto naturale per me cominciare a parlare sardo, come si comincia a parlare la propria madrelingua, perché appunto loro si sono rivolti a me sempre in sardo. Ad oggi, che i miei nonni purtroppo non sono più con me, io vivo il sardo a casa, perché come accennavo anche prima, i miei genitori tra di loro parlano in sardo se non al telefono.
SIMONA: Okay…
ANNA: Questa è tra l’altro una cosa abbastanza interessante, perché…ora apro una parentesi: ad esempio, mia mamma quando non è a casa risponde al telefono perché mio padre la chiama, inizialmente parla in italiano come se fosse una persona qualunque, quando poi comincia a parlare in sardo allora io mi accorgo e capisco subito che lei sta parlando con mio padre, perché loro principalmente tra loro parlano in sardo. Quindi diciamo che ora io vivo il sardo in maniera un po’ indiretta, perché purtroppo lo ascolto, non ho più tanto modo di parlarlo come prima, perché appunto con i miei genitori io parlo in italiano, se non…capita magari qualche espressione, che sia scherzosa o che sia in un momento magari di rabbia. Però principalmente io parlo in italiano.
SIMONA: Ecco, ti stavo per chiedere questa cosa: le reazioni come la rabbia o l’ironia…perché a me il dialetto…quando io devo scherzare o sono arrabbiata, sono i due momenti principali in cui si attiva il dialetto nella mia testa: se sono arrabbiata, non penso in altra lingua, cioè penso solo in dialetto e poi faccio anche fatica a tradurre in italiano la mia rabbia, no? (RIDE). Quindi se mi arrabbio con qualcuno che capisce il dialetto, meglio, posso, come dire, sfogare al massimo quello che penso, però, ecco, è interessante che anche tu hai sottolineato questa cosa: quando stai scherzando e quando sei arrabbiata, ironia e rabbia.
ANNA: Esatto, però con le persone…con i miei familiari…
SIMONA: Con i tuoi familiari, certo…
ANNA: Perché non avrebbe la stessa resa che ha con…
SIMONA: …una persona che non ti capisce…
ANNA: …una persona che non lo capisce…
SIMONA: Ma quindi anche con i tuoi amici, immagino, in Sardegna?
ANNA: Sì, sì…
SIMONA: Con gli amici in Sardegna, ecco. Quindi è una lingua che appartiene a quella parte di te pre-continente, perché in Sardegna chiamate l’Italia continente, giusto? (RIDE) La prima volta che sono stata in Sardegna da una mia amica, sentivo sua cugina parlare “Continente, continente”, ma di cosa parla questa signora? Io non capisco, cos’è il continente? E poi, infatti, chiesi a Valentina “Valentina, ma continente in che senso?”, “L’Italia”, “ah, capisco…”. (RIDE). Proprio come dire, una cosa a parte…
ANNA: Ora su questo racconto una cosa divertente, perché qualche mese fa la nonna di mio amico qui in Toscana (una persona molto anziana) mi chiese: “Ma tu da quanto tempo sei in Italia?”. Non scherzo. Io ci sono rimasta di un male. (RISATE) Non credo di aver risposto a quella domanda.
SIMONA: Ma lei sapeva che venivi dalla Sardegna?
ANNA: Sì, sì, per lei era proprio un mondo a sé…
SIMONA: Ecco, magari per persone di una certa generazione…sì, capisco, cioè, l’isolano, la persona che vive nell’isola, anche se fa parte dell’Italia, vive in un altro mondo, vive in un altro stato, e per un isolano immagino la stessa cosa per chi vive nel continente…è più o meno la stessa cosa no?
ANNA: C’è il mare che ha sempre il suo ruolo…
SIMONA: C’è il mare che ha il suo potere di separazione…(RISATE) “Da quanto tempo sei in Italia?”, bella questa!!
ANNA: E poi un’altra cosa che mi piacerebbe specificare è: orale e scritto. C’è tra l’altro un’amica, che anche lei ha molto a cuore questa cosa della conservazione della lingua sarda, conservazione nel senso di continuare ad usarla, e quindi spesso e volentieri capita che quando ci scriviamo via messaggi scriviamo proprio in sardo…
SIMONA: Okay…
ANNA: Però questo è un caso a sé. Con, invece, i miei familiari, nel momento in cui si scrive, ci scriviamo i messaggi, sono in italiano, però mi capita molto spesso di mandare degli audio, magari scherzosi, in sardo, per rendere di più l’idea della cosa…
SIMONA: Ma non scherzeresti per iscritto in sardo?
ANNA: Non renderebbe ugualmente…
SIMONA: Non renderebbe ugualmente…quindi ha bisogno del suono il sardo per manifestarsi in tutta la sua potenza di ironia e rabbia. Okay perfetto, ma quindi, dimmi un po’, per te che valore ha il sardo? Cioè, come lo consideri? Lo consideri una ricchezza? Lo consideri un peso? Come lo consideri questo elemento nel tuo patrimonio culturale?
ANNA: Io lo considero assolutamente una ricchezza, perché molte volte nella mia piccola esperienza di insegnamento che ho avuto, mi è stato utile, per la sua forte vicinanza che ha con il latino, nello spiegare l’etimologia di alcune parole.
SIMONA: Okay, quindi una ricchezza anche professionalmente?
ANNA: Esatto. Sì, sì. Eh, appunto sì. Ora, a prescindere dall’aneddoto che ho raccontato prima con l’insegnante di storia della lingua italiana che mi aveva fatto la domanda “Ma tu quante quante lingue parli?”, ancora prima di quel momento, anche quando ero bambina, che comunque ancora non avevo la consapevolezza di quello che volesse dire conoscere una lingua, parlare una lingua, cos’è un dialetto e tutto il resto, mi rendevo conto che era una cosa in più, che era una cosa diversa dall’italiano, e che era una cosa proprio a sè: nella mia testa faceva parte di uno scompartimento a sé.
SIMONA: Okay…
ANNA: Quindi sì, è di sicuro una ricchezza, un valore aggiunto, perché mi avvicina a casa. Quando io penso ad alcune scene di vita familiare, quando magari ho un po’ di nostalgia e penso a casa, io sento mio padre che parla in sardo, mio fratello che magari si arrabbia ed esclama qualcosa in sardo, quindi si è di sicuro una ricchezza.
SIMONA: Lo hai mai vissuto come una vergogna il fatto di parlare…non hai mai sentito vergogna di parlare in dialetto? Perché è una cosa che è capitata a me onestamente, devo dirti la verità, cosa di cui poi ovviamente mi sono riappropriata, appunto, come ti dicevo, studiando il mio dialetto. All’inizio però, soprattutto quando mi sono trasferita a Siena, notavo questa cosa mentre parlavo. All’inizio le persone mi dicevano “Ah, hai le vocali molto aperte, vieni dal sud, no? Vieni dalla Puglia”. Io dicevo “Sì”, però mi sentivo dentro…ho realizzato la vergogna che provavo nei confronti del mio dialetto perché mi sentivo in imbarazzo quando la gente notava che io avevo l’accento pugliese. Quando invece con gli anni ho un pochino modificato l’accento inevitabilmente per tante ragioni, non volutamente, ma per tante ragioni, quando poi la gente mi diceva “Non riesco a capire bene il tuo dialetto, non riesco a capire bene il tuo accento” ero felice, sentivo “Che bello si è nascosto”, e io ho lavorato su questa sensazione che provavo, cioè proprio su questa idea, su questo pensiero che si è attivato nella mia mente “Che bello, non sentono che sono del Sud”. Ho lavorato, mi sono riappropriata del mio dialetto per arrivare a vederlo come lingua, ovviamente dialetto, non una lingua come il sardo, però a vederlo come qualcosa di cui non mi devo vergognare. Però ovviamente lì, sai, c’è tutta la narrazione legata al meridione, eccetera, eccetera, che non stiamo qui a discutere, ecco, se siete interessati a questo argomento, lo scorso mese abbiamo pubblicato un’intervista con questo argomento qui, sul Sud eccetera eccetera, quindi per questo ti ho fatto questa domanda: vergogna? No.
ANNA: Allora vergogna no, nel senso che, appena sono arrivata a Siena, era inevitabile che le persone capissero quale fosse la mia regione di provenienza. È capitato anche a me recentemente che mi dicessero “Non capisco da dove vieni”, “Non capisco il tuo accento”, perché forse col tempo un po’ mi si è…ovviamente non è andato via e io dico “Per fortuna”, io non voglio che vada via, io dico “Per fortuna”. Mi si è sicuramente un po’ affievolito, diciamo così, però sì, mi capitava, appena sono arrivata a Siena che mi dicessero “Ah, sei sarda”. Anche qui ho un aneddoto da raccontare, e lì ho provato un po’ di imbarazzo, ma semplicemente per la situazione in sé, perché comunque eravamo in classe, in aula, eravamo tante persone e mi sono trovata a parlare…
SIMONA: …con la luce puntata
ANNA: Esatto! Stavamo parlando appunto dei dialetti regionali con l’insegnante (la famosa insegnante di storia della lingua italiana) e quella lezione era sul sardo.
SIMONA: Okay…
ANNA: L’insegnante a un certo punto chiede: “C’è qualche sardo in aula?” (RISATE). Io lì per lì non sapevo se alzare la mano, perché non sapevo quale sarebbe stata la sua mossa successiva. Ho detto “Magari questa mi fa leggere, mi fa andare alla cattedra”. Avevo un po’ vergogna. Tutte le mie colleghe dietro mi puntano il dito, quindi l’insegnante si rende conto di questa cosa, rivolge lo sguardo verso di me e mi dice “Ah, lei signorina è sarda?”, io faccio sì con la testa, mi scrive una frase alla lavagna e mi chiede di leggerla a voce alta. Ora non ricordo a memoria la frase per intero, però mi ricordo che all’interno della frase, proprio in mezzo alla frase, tra due parole, c’era la parola “guerra”. Io pronuncio questa frase e l’insegnante fa notare alla classe il raddoppiamento sintattico che io avevo fatto pronunciando la parola guerra, quindi una particolarità appunto della lingua sarda e dell’accento sardo, se ora si parla di accento, è appunto questo, il raddoppiamento delle consonanti che c’è sia all’interno di parola, che all’interno di frase all’inizio delle parole.
SIMONA: Certo…
ANNA: E quindi ovviamente per me era naturale leggere la frase in quel modo, lei però si era accorta subito di questa cosa, l’aveva fatta notare…
SIMONA: E ti sei sentita in imbarazzo…
ANNA: …e poi mi sono sentita un po’ in imbarazzo, ma allo stesso tempo utile in quel momento. La vergogna di cui tu parlavi prima non l’ho sentita, perché da bambina, tra i miei cugini (e siamo tanti) ero l’unica che, non solo capiva il sardo, ma lo usava. Magari i miei cugini, se i miei nonni parlavano in sardo, capivano, facevano quello che gli veniva chiesto, ma non rispondevano effettivamente alle cose in sardo. Io proprio ci parlavo, magari tornavo a casa e rispondevo anche a mia mamma in sardo. Quindi loro mi hanno fatto sempre vivere questa cosa come una cosa in più.
SIMONA: Una ricchezza…
ANNA: “Ah che brava, che brava Anna”, “Cavolo, Anna è così piccola, eppure lo parla così bene”. E tuttora, quando c’è qualche dubbio tra mie cugine, che più o meno hanno la mia età…
SIMONA: Tu rispondi…
ANNA: …chiedono a me “Anna ma perché…”, la maggior parte delle volte “Come si dice questo?”. Oppure, al contrario, loro utilizzano delle espressioni in sardo, però in realtà le usano perché sanno che sono corrette in quel contesto, ma non sanno effettivamente letteralmente cosa voglia dire quello che stanno dicendo, o comunque non sanno la traduzione e la storia che c’è dietro qualche espressione, e chiedono a me. Quindi questa cosa io l’ho sempre vissuta come un “Ah, che brava Anna”, e quindi come una cosa in più.
SIMONA: Certo, da linguista proprio…chiedere un parere all’esperta linguistica. Anche questo fa molto effettivamente, come la tua famiglia anche considera il dialetto, perché pensandoci (ora mi hai fatto accendere questa lampadina) in casa mia io ho parlato il dialetto a scuola. Okay? Cioè, a casa mia mio padre…mia madre è di Bari, non è del mio paese, non ha mai parlato il suo dialetto barese, quindi immagina se si mette a parlare il dialetto di Francavilla, mio padre sì, parlava dialetto. Ma ripeto, ironia e rabbia, e quindi da qui, anche forse per eredità, sarà arrivato da qui il dialetto, però in casa non era visto come positivo l’utilizzo del dialetto, era sempre considerato “Ah, i villani parlano dialetto”, “Ah, le persone maleducate parlano il dialetto”, “Ma che modi sono? Ma come parli?” Capito? Quindi ci sta che questa cosa abbia influito anche sulla vergogna, togliendo poi la narrazione generale del Sud eccetera eccetera, questa cosa qui va bene? E invece a scuola io ho iniziato a parlare e imparare bene il dialetto quando poi, verso la quinta elementare più o meno, ho iniziato a usarlo con i miei compagni: è lì che proprio l’ho iniziato a parlare e imparare bene, capito? Quindi ci sta che questa vergogna (mi hai fatto collegare) dipende anche da come, all’interno della famiglia, i tuoi genitori, che comunque sono sempre i tuoi punti di riferimento, è inutile dirlo, considerano questa lingua, e tu ovviamente erediti il loro punto di vista. Mi hai fatto accendere questa lampadina qui! Niente, volevo aggiungere un’altra cosa, un altro aneddoto anche io sul dialetto, una cosa che mi è successa a Siena, sempre per questa cosa della classe dell’università: stavo seguendo il corso di letteratura francese e, come ben sai, al sud il pronome di cortesia non è il “Lei” ma è il “Voi”, okay? Quindi noi non diamo del lei nel sud Italia, ma diamo del voi.
ANNA: Vedi questo in Sardegna no…
SIMONA: Ecco, da Napoli in giù immagino che questa cosa si faccia, perché in Toscana non c’è, nel Lazio non c’è, e io sono arrivata all’università utilizzando il “Voi”, perché a scuola utilizzavo il “Voi”, non davo del Lei alle mie insegnanti, ma: “Professoressa volete qualcosa? Posso darvi qualcosa?”. Usavo il “Voi” di cortesia. Quindi arrivo all’università, non sapendo questa cosa, perché non me l’ha mai detta nessuno, e faccio una domanda alla professoressa di francese (lei non era italiana) usando il “Voi” e lei mi fa, sai, una classica scenata (che non ripeto per imbarazzo, proprio mi imbarazza ripeterla questa cosa) e lì, per la prima volta, io ho avuto uno di quegli shock, come dire “O cavolo, non si dà del Voi qui!”, no? E mi sono vergognata in quel momento, mi sono vergognata, perché non l’ho vista come “Okay, è una questione di varietà linguistica…
ANNA: Esatto…
SIMONA: Perché nessuno mi ha insegnato “È una questione di varietà linguistica”, ma l’ho vista “Lei, autorità, professoressa, mi sta sgridando su una cosa linguistica; io, studente, che non conosco ancora che è una varietà, lo prendo come un rimprovero e quindi me ne vergogno”. Mi sono sentita una merda completamente quel giorno (scusate la parola ma non mi viene in mente altro!). Quindi, per associarmi ecco al tuo disagio, al tuo imbarazzo quando ha notato effettivamente la “gguerra” (anche noi al Sud lo facciamo, raddoppiamo la g, raddoppiamo le consonanti all’interno della frase: siamo in due effettivamente che facciamo questa cosa! La GGGuerra, con 8 G, non con 1. Invece in italiano sarebbe “la guerra”, no? Più sottile, ecco), chiusa parentesi. Tornando a questa cosa delle varietà linguistiche, io ne approfitto per chiederti l’ultima domanda, okay? Ecco, abbiamo detto che io l’ho visto come un rimprovero perché non sapevo che non era un errore grammaticale, quindi un errore da dire “È sbagliato, non farlo mai, non si può dire”, ma quello era un errore di varietà, quindi se sono nel sud Italia e utilizzo la varietà regionale di italiano regionale nel sud Italia e do del voi, benissimo. Se cambio contesto e conosco il nuovo contesto linguistico, e so che in questo contesto linguistico la varietà di italiano è diversa, controllo il mio modo di parlare e non utilizzo il voi, ma do del “Lei”, quindi, ecco, la conoscenza delle varietà e da questo mi collego alla pluralità linguistica, e quindi l’importanza di dire: “Certo, parlo l’italiano, ma conosco tante varietà dell’italiano, sono in grado di riconoscerle, sono in grado di capire quando usare questo italiano, quando usare questo italiano, quando usare il sardo, quando usare il mio dialetto salentino”, l’importanza e la ricchezza di questo. Sei convinta come me, credi come me che la pluralità linguistica è una ricchezza, è importantissima? E perché?
ANNA: Allora sono assolutamente d’accordo con te nel vedere appunto la pluralità linguistica come una ricchezza. La lingua, se non al primo posto, fa parte della cultura in tutti i sensi. Quindi sono del parere che, avvicinarsi a una lingua nuova, a una lingua diversa dalla propria madrelingua, sia un avvicinarsi a un’altra cultura, che appunto ha a che fare con diverse sfumature di questa cultura, che sia appunto la variante colloquiale, informale, lavorativa. Se io sono a scuola devo tenere un certo livello di italiano standard…
SIMONA: Certo…
ANNA: …se io sono a casa con i miei nonni posso parlare in italiano, posso parlare in sardo. Quindi diciamo che è un discorso che ha a che fare anche con la multiculturalità. Sono due cose che vanno di pari passo, ecco, quindi avvicinarsi a una nuova lingua e conoscere più di una lingua vuol dire conoscere più culture, più realtà, più modi di vivere. Quindi si è assolutamente una ricchezza e un valore aggiunto.
SIMONA: Certo, e conoscere più varietà della tua lingua ti apre più porte in contesti diversi, perché se tu rimani ad un italiano colloquiale ti precludi l’accesso a tanti altri settori della vita italiana, perché la lingua ti apre la porta ad un mondo, allora se tu conosci poche lingue, e per lingue intendiamo il sardo, intendiamo il francese, l’inglese, lo spagnolo, il portoghese, intendiamo il dialetto, ma intendiamo anche le varietà di una sola lingua, se tu conosci una sola lingua, entri in un solo mondo, ti apri una sola porta, le altre porte rimangono chiuse.
ANNA: Esatto! Ho menzionato la questione della cultura perché io provo un enorme dispiacere quando sento dire soprattutto da (non me ne vogliate voi parlanti anglofoni) parlanti anglofoni: “Io so l’ inglese – l’inglese vista per tanto tempo, se non tutt’ora, come lingua franca – quindi non mi serve (anche proprio questa espressione del bisogno), non mi serve conoscere altre lingue, perché tanto..”. È sbagliato. Per fortuna non è alta la percentuale delle persone che hanno questo parere, però purtroppo c’è chi pensa così, ed è un chiudersi, un restringersi in un angolo, è isolarsi…
SIMONA: Isolarsi dagli altri…
ANNA: …voltare le spalle appunto a culture diverse, a lingue diverse che ti aprono altre realtà.
SIMONA: Certo, pienamente d’accordo con te. Va bene, Anna. Come ultima cosa ti ringrazio innanzitutto per aver fatto questa chiacchierata con me. Come ultima cosa ti chiedo di farci sentire un po’ di sardo, per salutarci. Allora, ci dici una frase in sardo e ci spieghi un pochino, ci fai una piccola traduzione, e poi salutiamo tutti. Tu lo dici in sardo e traduci in italiano, e finiamo questa intervista così. Va bene?
ANNA: Okay, ho pensato a un’espressione che oggi ci sta a pennello, perché c’è davvero un gran caldo, anche se per fortuna qua siamo in un giardino molto molto bello, ventilato, stiamo all’ombra. Però la frase che mi verrebbe da dirvi è: “Oi c’esti diaderusu una basca leggia”.
SIMONA: Capito niente!
ANNA: Che in italiano vuol dire: “Oggi (oi), c’è (c’esti) davvero (diaderusu) una basca leggia (un brutto caldo)”, quindi basca è il caldo che, come sentite, in sardo, genere femminile, in italiano, maschile. leggia, aggettivo che letteralmente vuol dire “brutto”, e si usa principalmente per le cose, per le persone, anche se non si dovrebbe dire brutte, però in questo caso “basca leggia” vuol dire “forte”, che senti davvero che c’è caldo e non respiri. “Oi c’esti diaderusu una basca leggia”.
SIMONA: Okay, perfetto. Veramente, non sono riuscita ad identificare una sola parola, forse solo “Oi”, ma ero indecisa fra “Ciao” e “Oggi” (RISATE), quindi forse solo quella e basta. Niente, quindi Anna, grazie, io ti saluto. Ti ringrazio e aspetto un tuo saluto in sardo per chiudere questa intervista ai nostri ascoltatori e ascoltatrici, con traduzione, attenzione, alla fine!
ANNA: Okay! Ciao Simona, grazie a te per questa opportunità, e per questo scambio molto molto interessante, perché credo che faccia sempre bene ogni tanto parlare di lingua, plurilinguismo, perché sono tutte ricchezze che insomma vanno sottolineate. Il mio saluto in sardo che faccio a te è “A si biri”, che vuol dire, non tanto “Arrivederci”, però…anzi si può dire “Arrivederci”, nel senso “Rivediamoci un’altra volta”, “A si biri”, è scritto tutto attaccato in italiano, “Arrivederci”, ma è scritto separato in sardo “A si biri”. Biri vuol dire vederci, vedere, quindi “Asibiri”, “Vediamoci un’altra volta” e magari con gli ascoltatori “A s ‘intendi”, quindi “A risentirci un’altra volta”.
SIMONA: Perfetto! Grazie Anna, grazie!
CONCLUSIONE
Bene, l’intervista è finita e spero che vi sia piaciuta. Grazie per l’ascolto e alla prossima!
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