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#15: L’italiano scolastico

In questo episodio di livello avanzato vediamo cosa succede quando qualcuno decide qual è la varietà giusta di lingua da usare. Come e chi decide secondo voi quale varietà è giusta e quale è sbagliata? Scopri di più su https://lernilango.com
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#15: L’italiano scolastico
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Introduzione

In questo episodio di livello avanzato del nostro podcast vediamo cosa succede quando qualcuno decide qual è la varietà giusta di lingua da usare. Come e chi decide secondo voi quale varietà è giusta e quale è sbagliata?

Trascrizione

State ascoltando “la lingua e le cose”, una rubrica prodotta da LerniLango, un’infrastruttura online per l’apprendimento della lingua italiana. Per saperne di più e per leggere la trascrizione del podcast vienici a trovare su Lernilango.com.

Per adesso buon ascolto dell’episodio “l’italiano scolastico”.

È il 1861, e l’Italia è finalmente unita (politicamente). L’amministrazione viene centralizzata (non è più dunque sotto il controllo regionale, ma statale, appunto) e la leva militare diventa obbligatoria: immaginate dunque che il plurilinguismo che caratterizzava l’Italia incomincia a diventare scomodo, incomincia a creare disagio. 

Come avrebbero fatto infatti un barese e un milanese a capirsi, se l’unica lingua che parlavano era il loro dialetto? La situazione è complessa, e diventa sempre più chiaro a tutti che avere una lingua unitaria è fondamentale, una lingua cioè che permettesse ai cittadini di uno stesso stato di comunicare.

L’industrializzazione, l’urbanizzazione, le migrazioni da sud a nord, la diffusione della scolarizzazione, i mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, televisione) hanno in qualche modo contribuito a diffondere una competenza (passiva, ma era sempre meglio di niente) della lingua nazionale. 

La scuola, eh, la scuola…certamente ha contribuito al processo di unificazione linguistica, ma non come ci si aspettava. All’inizio del secolo XX, un burocrate del ministero dell’istruzione, Camillo Corradini, fu incaricato di stendere una relazione sulla situazione scolastica italiana. Il quadro che ne risultò fu sconfortante, soprattutto dal punto di vista linguistico: i bambini e le bambine, infatti, continuavano ad avere gravi carenze linguistiche. Le cause di ciò, secondo Corradini, erano:

  1. il fatto che gli insegnanti usassero in classe un misto di dialetto e lingua letteraria;
  2. l’imposizione di un modello linguistico letterario;
  3. l’illusione di poter insegnare l’italiano attraverso la sola presentazione delle sue regole. 

L’industrializzazione e gli altri fenomeni che ho già citato, che ho citato sù, comunque mandano avanti il processo di unificazione linguistica, e forse lo fanno meglio della scuola. 

Saltiamo il fascismo e la sua politica linguistica purista (ne parleremo in un altro podcast), e arriviamo al secondo dopoguerra: il dialetto in classe non si parla più, anzi è completamente espulso dalla scuola. Ma quale italiano si incomincia ad insegnare ai piccoli italiani e alle piccole italiane? 

La risposta è: un italiano che Maria Lo Duca, una linguista, definisce “paludato e arcaico, che sarebbe forse troppo generoso definire letterario, anche se letterari sono i modelli di riferimento”. Quindi a scuola si insegna un italiano che si nutre di letteratura, lontano dall’uso quotidiano, artificiale, tanto che i linguisti che lo scoprirono lo definirono “italiano scolastico”, proprio per sottolineare l’artificiosità di una varietà di lingua usata solo a scuola. 

Per darvi un’idea di questo italiano vi riporterò alcuni esempi che ho preso dal Corpus digitale delle scritture scolastiche d’ambito valdostano (http://www.codisv.it/),cioè un archivio digitale creato dall’università della Valle d’Aosta in cui sono raccolte le scritture scolastiche del periodo compreso tra l’Unità d’Italia e il XX secolo. 

Dalle correzioni fatte dagli insegnanti capirete quale modello linguistico essi volevano insegnare, e quale invece era la lingua che i bambini e le bambine parlavano e conoscevano effettivamente. 

Vi riporto qualche esempio legato all’uso delle parole. 

Ad esempio, la frase: “noi facciamo questi lavori con molto piacere”, viene corretta dall’insegnante in “noi svolgiamo questi incarichi con gran gaudio”.

Oppure, la frase: “poi ho visto le farfalle e le api” è stata modificata, è stata corretta dall’insegnante in  “poi ho notato le farfalle e le api”.

O ancora, la frase: “fare un lavoro” viene corretta in “esercitare un mestiere”.

E infine la frase: “ha un mucchio di capelli” viene corretta dall’insegnante in “ha una folta chioma”.

Ma l’esempio più bello per me è quello di un bambino che, parlando del suo cane, scrive che la sua coda è come quella di una volpe, “lunga e pelosa”; la maestra o il maestro corregge pelosa con ‘aggettivo “folta”.

Insomma, notate che la lingua viene inutilmente complicata per adeguarsi ad un modello letterario, che può funzionare solo in letteratura, e neanche in tutta la letteratura, solo in quella di un certo tipo. Se scrivo un sonetto d’amore e voglio essere romantica mi riferirò ai capelli del mio amato dicendo “la chioma dorata”, ma se devo descriverlo in un romanzo anzitutto non dirò amato ma compagno, o ragazzo, o fidanzato, e poi mi riferirò ai suoi capelli con la parola capelli, perché questo è il loro nome. Vi ricorda qualcosa questa lingua “inutilmente complicata”? 

Se avete ascoltato l’episodio precedente, starete sicuramente pensando a mio nonno. Abbiamo quindi individuato un’altra causa alla base del suo italiano da “modulo di banca”. Non è infatti una coincidenza che lui abbia frequentato la scuola nel secondo dopoguerra. 

Comunque, comunque, qualcuno si oppose a questo modello di lingua che si insegnava nelle scuole, che non solo era artificiale ma anche estremamente discriminatoria: un bimbo o una bimba di campagna dove mai avrebbe potuto ascoltare la parola “chioma” nella sua quotidianità fatta di “capelli” e di cose in “mucchi” e non “folte”?! Per un figlio o una figlia di medici forse sarebbe stato più semplice anche solo poter leggere un libro di poesia. 

Uno dei più grandi oppositori di questa lingua finta fu Lorenzo Milani, un prete, che nel 1967 scrisse un meraviglioso libricino che vi consiglio di leggere, intitolato Lettera a una professoressa. Questo libricino criticava sia il modello di lingua insegnato nelle scuole, sia la metodologia di insegnamento linguistico che si ostinava a concepire la lingua come un insieme di regole grammaticali immutabili, fisse. 

Nella stesso anno viene fondata grazie al linguista Tullio De Mauro la SIL, società di linguistica italiana, che a sua volta ispirò la nascita del GISCEL, gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica, il cui obiettivo era rinnovare la pedagogia linguistica.

Il manifesto del GISCEL furono le 10 tesi per l’educazione linguistica democratica, pubblicate nel 1975. Nella trascrizione di questo podcast troverete il link (https://giscel.it/dieci-tesi-per-leducazione-linguistica-democratica/) per leggerle interamente. Io qui vi riporto solo le prime tre, che sono poi le mie preferite. 

La prima, la prima tesi, riguarda la centralità del linguaggio verbale, e recita:

“Il linguaggio verbale è di fondamentale importanza nella vita sociale e individuale perché grazie alla padronanza sia ricettiva sia produttiva di parole e fraseggio, possiamo intendere gli altri e farci intendere; ordinare e sottoporre ad analisi l’esperienza; intervenire a trasformare l’esperienza stessa”.

La seconda tesi, invece, riguarda il radicamento del linguaggio nella vita biologica, emozionale, intellettuale e sociale, e recita così:

“Dati i molti legami con la vita individuale e sociale, è ovvio (ma forse non inutile) affermare che lo sviluppo delle capacità linguistiche affonda le sue radici nello sviluppo di tutt’intero l’essere umano, dall’età infantile all’età adulta, e cioè nelle possibilità di crescita psicomotoria e di socializzazione, nell’equilibrio dei rapporti affettivi, nell’accendersi e maturarsi di interessi intellettuali e di partecipazione alla vita di una cultura e comunità. E, prima ancora che da tutto ciò, lo sviluppo delle capacità linguistiche dipende da un buono sviluppo organico e, per dirla più chiaramente, da una buona alimentazione. Troppo spesso dimenticati, frutta, latte, zucchero, bistecche sono condizioni necessarie, anche se non sufficienti, di una buona maturazione delle capacità linguistiche.

Un bambino sradicato dall’ambiente nativo, che veda poco o niente genitori e fratelli maggiori, che sia proiettato in un atteggiamento ostile verso i compagni e la società, che sia poco e male nutrito, inevitabilmente parla, legge, scrive male. Per parafrasare Bertolt Brecht diremo: «Prima la bistecca e la frutta, e dopo Saussure e le tecnologie educative»”.

La terza infine riguarda la pluralità e la complessità delle capacità linguistiche, e recita così:

“Come già abbiamo accennato, il linguaggio verbale è fatto di molteplici capacità. Alcune, per dir così, si vedono e percepiscono bene: tali sono la capacità di produrre parole e frasi appropriate oralmente o per iscritto, la capacità di conversare, interrogare e rispondere esplicitamente, la capacità di leggere ad alta voce, di recitare a memoria, ecc. Altre si vedono e percepiscono meno evidentemente e facilmente: tali sono la capacità di dare un senso alle parole e alle frasi udite e lette, la capacità di verbalizzare e di analizzare interiormente in parole le varie situazioni, la capacità di ampliare il patrimonio linguistico già acquisito attraverso il rapporto produttivo o ricettivo con parole e con frasi soggettivamente o oggettivamente nuove”.

In poche parole, la prima tesi ci dice che il linguaggio verbale è proprio come un’arma, è un’arma, uno strumento, uno strumento che non solo ci permette di comunicare, ma uno strumento che se usato bene ci permette addirittura di cambiare la realtà.

La seconda tesi invece, praticamente, dice che se non partiamo tutti dalle stesse condizioni materiali non tutti possiamo avere le stesse condizioni non materiali, e dunque non tutti possiamo avere in questo caso la stessa padronanza del linguaggio, la stessa proprietà del linguaggio. 

E la terza tesi infine, dice brevemente che ci sono alcune capacità linguistiche che si possono vedere, misurare, come la quantità di parole conosciute, ma ci sono anche delle capacità non visibili, che sono ad esempio quelle legate alla verbalizzazione, cioè il trasformare in parole i propri pensieri, e queste sono delle capacità che non si possono vedere, non si possono misurare, e che ovviamente non sono uguali in tutte le persone, non sono uguali in tutti i parlanti. 

Dunque, dunque, Da questo momento dunque, con le dieci tesi, l’educazione linguistica incomincerà a riflettere su se stessa, sui suoi limiti, a modificarsi e ad adattarsi alle esigenze e alla eterogeneità delle nuove classi italiane. Il percorso sarà ancora lungo, ma comunque qualcuno ha aperto la strada. 

Concludo questo podcast con due estratti del libricino di Don Milani, su cui vorrei che rifletteste. 

Il primo estratto è: “Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200, questo sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali”.

Il secondo estratto è: “Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo”.

Siamo arrivati alla fine di questo podcast, vi ringrazio per l’ascolto e ci sentiamo alla prossima.

A presto!

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