Introduzione
Vi siete mai chiesti e chieste da dove arrivano le parole del cibo italiano, quale storia possono raccontarci? In questo episodio vi racconto alcuni episodi della storia della cucina italiana, e vi mostro quale influenza hanno avuto sulla lingua della cucina.
Trascrizione
State ascoltando “la lingua e le cose”, una rubrica prodotta da LerniLango, un’infrastruttura online per l’apprendimento della lingua italiana. Per saperne di più e per leggere la trascrizione del podcast vienici a trovare su Lernilango.com.
Per adesso buon ascolto dell’episodio “L’italiano in cucina”.
Ciao a tutti e a tutte, bentornati e bentornate nella rubrica di LerniLango “la lingua e le cose”, una rubrica che ha l’obiettivo di esplorare le cose che influenzano la lingua italiana e vedere dunque come queste cose si manifestano nella lingua.
Oggi ci sediamo a tavola, e guardiamo più da vicino l’italiano usato nel settore culinario, in cucina, per scoprire cosa può raccontarci sulla storia della cucina italiana la lingua che la esprime.
Quando incontro per la prima volta un nuovo studente o una nuova studentessa, chiedo sempre “perché hai deciso di studiare l’italiano?” e nella maggior parte dei casi (direi un buon 85%) la risposta è “perché amo la cultura, il cibo…”. Il cibo è il primo elemento della cultura che viene citato, ogni volta.
Credo sia risaputo in tutto il mondo che la cucina italiana è deliziosa, e non a caso il turismo in Italia è anche (e soprattutto, direi) enogastronomico, cioè legato all’esplorazione di vini e cibi locali.
Ma che dire delle parole che usiamo per parlare del cibo italiano? Da dove vengono? Che cosa possono raccontarci?
Cercherò di rispondere a queste domande, oggi, in questo episodio, esplorando alcuni ricettari italiani, cioè libri di ricette scritti in italiano, e avvalendomi di informazioni riportate nel saggio Lingua e Identità curato dal linguista italiano Pietro Trifone.
Incominciamo, dunque.
Il primo ricettario di cui voglio parlarvi è Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi pubblicato a Torino nel 1766.
Nel XVIII secolo in Europa occidentale, e prima di tutto in Francia, si verificò una grande rivoluzione alimentare che determinò un cambiamento considerevole nel concetto di gusto, in Europa.
Le salse grasse furono sostituite da quelle acide, si ridusse l’uso delle spezie in cucina, si incominciarono a valorizzare sapori naturali, l’agro e il dolce, fino ad allora molto mescolati in cucina, incominciarono ad essere separati nella preparazione dei piatti.
In questa rivoluzione culinaria la Francia assunse un ruolo centrale, potremmo anzi dire che ne fu la propulsatrice, cioè la nazione che più di tutte ne determinò l’avvio di questa rivoluzione alimentare.
Questo ruolo dominante della Francia si evince in modo molto evidente se si sfoglia il ricettario Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, e si evince non solo dalle ricette di derivazione francese, ma anche dalle parole utilizzate per parlare di cucina.
Nel ricettario tantissimi sono i termini francesi che hanno conservato la loro forma originaria, come ‘escalope’, ‘fricandau’, ‘soufflet’, ‘mignone’, ‘gateau’ (chiedo scusa per la mia terribile pronuncia francese).
Altri termini invece sono stati italianizzati: ‘en papilotte’ diventa ‘in papigliotte’ (parola che significa ‘al cartoccio’, un particolare metodo di cottura); la parola francese ‘jambone’ (prosciutto) diventa ‘giambone’ in italiano, la ‘bechamel’, una salsa, diventa in italiano ‘la besciamella’ (parola ancora oggi usata, salsa ancora oggi usata per condire lasagne e cannelloni al forno).
Anche alcuni termini relativi alle tecniche di cottura sono italianizzazioni di termini francesi, come ‘gratinare’ cioè ‘abbrustolire’ (ancora oggi usato), ‘fambare’ (versione antica dell’attuale ‘flambare’), ‘imbianchire’, parola ancora oggi usata e che significa ‘lessare’, cioè cuocere in acqua bollente, come la pasta.
La grande rivoluzione linguistica, però, nell’ambito della cucina italiana si verificherà circa un secolo dopo, grazie ad un altro famosissimo ricettario che insieme ai libri per ragazzi Pinocchio di Collodi e Cuore di De Amicis, contribuirà alla creazione di una lingua unitaria, mi sto riferendo cioè Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie, un ricettario scritto e curato da Pellegrino Artusi.
La prima edizione fu pubblicata nel 1891, l’ultima nel 1910, con migliaia di copie vendute.
L’Artusi, nome con cui ci si riferiva (e ci si riferisce ancora, come posso ben testimoniare poiché è mia nonna a farlo), dicevo l’Artusi, nome con cui ci si riferiva al ricettario, entrò nelle case di milioni di italiani e italiane da nord a sud influenzando notevolmente il loro italiano, e con questa influenza l’Artusi contribuì molto più della scuola all’unificazione linguistica del giovane stato italiano, stato da soli 30 anni (ricordate che l’unificazione d’Italia è avvenuta nel 1861).
Artusi era un commerciante ed un banchiere, romagnolo di nascita ma toscano.
Ad un certo punto della sua vita decide di raccogliere le ricette della tradizione italiana da nord a sud, anzi, da nord a Napoli, perché i suoi viaggi di ricerca non si sono mai spinti oltre a Napoli, cosa che vi fa capire quale reputazione avesse il Mezzogiorno all’epoca.
Ad Artusi dunque dobbiamo la realizzazione del repertorio culinario della Penisola, di una parte della Penisola.
Per scrivere il suo ricettario Artusi utilizzerà come modello linguistico di riferimento il fiorentino (ricordate che ancora non esiste una lingua nazionale come oggi noi la conosciamo, l’italiano è ancora in questo periodo in fase di formazione e standardizzazione, e per antica tradizione la lingua parlata a Firenze è sempre stata scelta come lingua di riferimento, lingua locale che per le sue caratteristiche poteva diventare lingua nazionale).
Alcune parole del fiorentino, presenti nel ricettario, fanno ancora oggi parte dell’italiano, come ‘avvezzo’ (cioè ‘abituato’), ‘canzonare’ (cioè ‘prendere in giro’), ‘stuccare’ (che viene detto di un cibo che non gradiamo molto, che ci da la nausea, perché in esso c’è la presenza eccessiva di qualche ingrediente; ad esempio se in un dolce c’è troppo zucchero io dico che ‘stucca’, ‘è stucchevole’ perché appunto c’è troppo zucchero e la presenza eccessiva dello zucchero mi disturba).
Altre parole, invece, che possiamo trovare all’interno del ricettario non fanno parte dell’italiano standard attuale, ma le potete ancora sentire se andate in Toscana, e solo in Toscana. ‘Babbo’ ad esempio, cioè ‘papà’, è toscano, ‘garbare’ è toscano che significa ‘piacere’ (‘non mi garba’ in Toscana significa ‘non mi piace’), o ancora la parola ‘tocco’ che significa ‘una’, cioè ‘l’una’ come orario, ‘ci vediamo all’una’, ‘ci vediamo al tocco’ in Toscana significa ‘ci vediamo all’una’.
C’è poi questa parola che viene pronunciata in modo diverso da nord a sud, e cioè ‘arìsta’ di maiale, una parte del maiale, un pezzo di carne. Io pronuncio arìsta, perché al sud si pronuncia così, ma in Toscana no, si pronuncia àrista (con l’accento sulla a-).
Quando vivevo a Siena, per l’università, io e il mio coinquilino calabrese ci servivamo spesso, per pranzo, da un alimentari meraviglioso. Un giorno lui chiese dell’arìsta di maiale, e la signora che ci serviva lo corresse dicendo “no, si dice àrista non arìsta”.
Un piccolo racconto di vita per spiegarvi queste differenze linguistiche.
Ora, invece, vi riporterò alcuni tecnicismi culinari che ancora oggi si usano, e che ad esempio potete sentire a Masterchef Italia o nel programma di Benedetta Parodi.
Tra questi tecnicismi abbiamo ad esempio l’espressione ‘prendere colore’, un’espressione che usiamo per indicare che il cibo sta incominciando a cuocersi, quindi quando il cibo, un cibo che stiamo cucinando, inizia a cuocersi diciamo ‘mmh sta prendendo colore’; altri tecnicismi sono ‘rosolare’, ‘tritare’, ‘unire’ (di solito un ingrediente ad un altro), ‘battere’ (di solito la carne, anzi principalmente la carne), oppure ‘cuocere a bagno-maria’ cioè cuocere un cibo non a contatto diretto con l’acqua ma in un contenitore che è poi immerso in acqua bollente.
Nell’Artusi, inoltre, troviamo parole italianizzate dal francese, cotoletta, maionese, glassa, scaloppine; dall’inglese, bistecca, budino, rosbiffe scritto ‘rosbiffe’ (dall’inglese roast-beef); ed infine troviamo parole italianizzate dall’arabo, come cuscussu che è la versione italiana di cous cous.
Alcune parole straniere però si conservano, come krapfen, babà, brioches (chiamata ‘brioscia’ dalle mie parti), o ancora cognac, champagne, sandwich e strudel.
Tra le ricette regionali raccolte nel ricettario troviamo: i carciofi alla giudia, i supplì e gli gnocchi di Roma, la pizza napoletana, i cappelletti alla romagnola, i tortellini alla bolognese, il risotto alla milanese, l’osso buco alla milanese. La parola supplì è il termine, è il nome con cui, a Roma, si chiamano gli arancini – se non sapete cosa sono gli arancini ascoltate l’episodio del nostro podcast Gli arancini siciliani.
Ora, vi leggo la ricetta degli gnocchi per darvi un’idea sia dell’italiano usato in questo ricettario, sia della struttura che le ricette assumono all’interno di questo testo, ricette intese proprio come genere testuale, come testo.
Incomincio a leggere:
La famiglia de’ gnocchi è numerosa. Vi ho già descritto gli gnocchi in brodo del n. 14: ora v’indicherò gli gnocchi di patate e di farina gialla per minestra e più avanti quelli di semolino e alla romana per tramesso o per contorno, e quelli di latte per dolci.
Patate grosse e gialle, grammi 400.
Farina di grano, grammi 150.
Vi noto la proporzione della farina per intriderli, onde non avesse ad accadervi come ad una signora che, me presente, appena affondato il mestolo per muoverli nella pentola non trovò più nulla; gli gnocchi erano spariti. – O dov’erano andati? – mi domandò con premurosa curiosità un’altra signora, a cui per ridere raccontai il fatto, credendo forse che il folletto li avesse portati via.
– Non inarchi le ciglia, signora – risposi io – ché lo strano fenomeno è naturale: quelli gnocchi erano stati intrisi con poca farina e appena furono nell’acqua bollente si liquefecero.
Cuocete le patate nell’acqua o, meglio, a vapore e, calde bollenti, spellatele e passatele per istaccio. Poi intridetele colla detta farina e lavorate alquanto l’impasto colle mani, tirandolo a cilindro sottile per poterlo tagliare a tocchetti lunghi tre centimetri circa. Spolverizzateli leggermente di farina e, prendendoli uno alla volta, scavateli col pollice sul rovescio di una grattugia. Metteteli a cuocere nell’acqua salata per dieci minuti, levateli asciutti e conditeli con cacio, burro e sugo di pomodoro, piacendovi.
Se li volete più delicati cuoceteli nel latte e serviteli senza scolarli; se il latte è di buona qualità, all’infuori del sale, non è necessario condimento alcuno o tutt’al più un pizzico di parmigiano.
Ecco qui, e così con un pizzico di parmigiano, con una spolverata di parmigiano, si conclude questa ricetta, una delle ricette del testo che come avrete notato ha la struttura simile a quella delle ricette che ancora oggi si scrivono a mano o sui libri di cucina.
Vi consiglio, comunque, di leggere il libro per intero per scoprire tante altre parole e ricette della cucina italiana, trovate il link del libro nella trascrizione del podcast (https://amzn.to/35DdjQb).
Per adesso, con questi episodi ho voluto mostrarvi come Artusi ha influenzato l’italiano che ancora oggi usiamo per parlare di cibo, ma soprattutto adesso vorrei sottolineare e dire che è a partire proprio da questo testo che nascerà all’estero il mito dell’Italia come luogo pieno di delizie culinarie.
Una lingua comune crea una nazione, ma anche una cucina nazionale può farlo.
Ma cosa è successo all’italiano del cibo dopo Artusi? Lo scopriremo nel prossimo episodio.
Per adesso siamo arrivati e arrivate alla fine, vi ringrazio per l’ascolto e alla prossima!
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